Un  cappotto termico  ante litteram  nella tradizione edilizia agerolese.

Oggi che va  per la maggiore rivestire case e palazzi col  cosiddetto “cappotto termico”  mi sembra proprio il caso di dedicare  un post  a quello che mi sento di definire come un antenato multi-secolare e perfettamente eco-compatibile  dei moderni pannelli isolanti.

Mi riferisco all’ intonaco (o arricciatura)di calce e pomici col quale si usava rifinire le superfici esterne delle case di Agerola.

La pomice è un ottimo isolante termico, in quanto essa è estremamente ricca di micro-cavità interne che ne fanno un materiale molto poroso (fino al 90%)  e molto leggero (peso specifico inferiore a  1 kg/ dm3; fino a meno di 0,2 kg/dm3). In virtù di detta porosità, la pomice, come l’argilla espansa, il sughero, il polistirene, ecc., è un ottimo isolante termico.

La foto che segue mostra il tipico aspetto di una facciata rifinita con il tradizionale mantello di pomici e calce. Nel caso specifico si tratta di un lavoro fatto circa quarant’anni fa.

La tecnica di esecuzione è molto simile a quella che si usa per l’applicazione di un rinzaffo a cazzuola. Le pomici non devono  essere troppo grosse (max  1 cm o poco più) e l’impasto di pomici e calce spenta deve essere parecchio fluido. Tenedosi a circa un metro dalla parete, il muratore tiene nella sinistra la caldarella con l’impasto, ne preleva poco alla volta con la cazzuola e con abile gesto arcuato, simile a quello del contadino che semina a spaglio, lo getta contro il muro prima che possa colare via dall’attrezzo.  Il rivestimento di una parete avviene ripetendo questi gesti moltissime volte, mentre ci si sposta di pochi centimetri  alla volta verso destra (ma poi, ultimata una fascia, anche verso il basso, per iniziarne un’altra).

Non so quanto sia antico l’uso di  questa tecnica ad Ageroa e dintorni. Certo è che la disponibilità di giacimenti di pomici  qui esiste da circa duemila anni, vale a dire da quel 79 dopo Cristo che vide il Vesuvio dare una delle sue più forti eruzioni esplosive. La gigantesca nuvola a forma di pino che Plinio il Vecchio vide da Miseno era fatta in massima parte di pomici. Essa si alzava fin nella stratosfera (si stima tra 20 e 30 km di altezza)  dove in quei giorni soffiava un vento diretto verso SSE. Di conseguenza la  testa della nube eruttiva si allungò in quella direzione e intorno a  quella direzione si concentrò la ricaduta al suolo delle pomici. Ad Agerola ne caddero tante da formare un banco spesso circa 2 metri. Ovviamente, quel banco si è conservato intatto o quasi solo sui tratti pianeggianti del territorio, mentre sui pendii – specie se ripidi – è stato ampiamente assottigliato dall’erosione. 

Cos’è e come si forma la pomice?

La pomice  è un materiale vulcanico che si forma durante le eruzioni esplosive. Spinto dalla pressione esercitata dai gas in esso contenuti, il magma fuso viene lanciato fuori (talora fino a parecchi km di altezza) e si raffredda così rapidamente da non dar tempo ai costituenti chimici di  cristallizzare, cioè di solidificare in minerali diversificati e in regolari forme geometriche.  Il magma si solidifica invece in forma amorfa, ossia come vetro vulcanico.

A sinistra: il candido banco  delle pomici del 79 d.C. in un affioramento in località Piano di S. Erasmo (a NE di Agerola). Il sottostante terreno rossiccio è il paleo-suolo di epoca romana. A destra in alto: un singolo frammento di pomice. A destra in basso: ingrandimento al microscopio che  fa meglio notare i vacuoli tipici delle pomici.

Anche la famosa ossidiana è fatta di vetro vulcanico, ma è vetro compatto e scuro nato da emissioni di magma povero di gas. La pomice, invece è solitamente di colore chiaro e non di rado bianca o quasi. Ciò  è dovuto al fatto che, mentre i brandelli di magma incandescente volano a getto verticale nell’atmosfera, al loro interno si liberano dei gas vulcanici che prima erano disciolti nel magma [1]. Dunque, in quelle passerelle di vetro incandescente e plastico, si formano delle bollicine che tendono poi a uscire dalla massa, generando delle micro cavità a forma di tubicini.

In sintesi, possiamo dire che le pomici sono fatte di vetro vulcanico soffiato.

Le pomici nell’edilizia moderna

Nell’edilizia moderna le pomici sono ancora parecchio utilizzate, specie come inerti per il confezionamento di calcestruzzo alleggerito (peso specifico poco superiore a 1kg/dm3) da usarsi per massetti di sottofondo di solai, per rinfianchi di volte e cupole, ecc.

Inoltre, nel Vesuviano e non solo, con analoghi calcestruzzi alleggeriti si confezionano quei blocchetti (forati o pieni e di varie taglie) che usiamo dire “di lapillo e cemento”.

Vi è poi un uso delle pomici che è fortemente imparentato col tradizionale arriccio per esterni cui è dedicato questo articolo. Si tratta di quegli intonaci naturali di fondo per interni ed esterni che si producono anche a scala industriale e che sono anch’essi alleggeriti, rispetto a quelli con inerti lapidei. Chi produce e vende tali pre-miscelati per intonaci ne sottolinea la naturalità dei componenti, il potere termo-isolante (conduttività termica intorno a 0,2 W/mK), insieme alle proprietà di esse un materiale traspirante e incombustibile.

Questi ultimi due fattori fanno una bella differenza rispetto a certi moderni materiali isolanti di origine industriale. Ma rispetto a questi ultimi, una malta ricca di pomici ha anche un altre grande vantaggio: quello di non diventare un rifiuto inquinante e difficile da smaltire quando cade per vetustà o viene rimossa a seguito di ristrutturazioni. Infatti un intonaco a pomici e calce può essere facilmente frantumato e riutilizzato nel confezionamento di muova malta.

Conclusione

In definitiva, mi pare di poter dire che il tradizionale intonaco “riccio” a pomici e calce fu un’ottima scelta dei nostri antenati, sempre bravi a sfruttare ciò che il loro territorio offriva (calce dalle locali calcare e pomici trovate nel primo sottosuolo).

Certo, con il suo spessore di circa 2 cm, più che un “cappotto” era una …”giacchetta termica”. Ma oggi, visti i problemi ecologici e geo-politici che abbiamo e considerato che le pomici le abbiamo in casa, non sarebbe il caso di sperimentare l’applicazione di più mani sovrapposte di quell’intonaco, fino a raggiungere un grado di isolamento tale da portare gli edifici esistenti in una classe di efficienza energetica accettabile?

Note:

1 –Anche in una bottiglia chiusa di spumante o birra vi è del gas (anidride carbonica) disciolto nel liquido. Esso si libera e diviene visibile come bollicine, quando apriamo la bottiglia. 

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Un interessante documento del 1645

Nella raccolta di documenti antichi intitolata Gli Archivi dei Monasteri di Amalfi (S. Maria di Fontanella, S. Maria Dominarum, SS. Trinità. Anni 860 – 1645[1],  il nome di Agerola compare molto spesso, poiché i monasteri amalfitani – come alcuni di Scala e come la badia di Positano – avevano quassù numerose proprietà.

Ma il documento di cui tratto in questa nota non è di quelli che riguardano un bosco, un castagneto o un podere agricolo posseduto da uno dei citati monasteri amalfitani [2].  Esso è invece il transunto di una delibera degli amministratori comunali di Agerola in carica quell’anno. Eccone il testo, prima  nell’originale latino e poi in italiano:

1645, 6 febbraio Agerola.

Gregorius de Avitabile filius quondam Ottavii, sindicus dicte Terre,  Laurentius Naclerius casserius, Stephanus Casanova, Natalis de Campora, Narcus Cavalerius et Gregorius de Avitabile electi dicte Terre Ageroli,  vendunt utrius iuris doctori Francisco Antonio de Afflicto filius quondam Iohannis Baptiste de Amalfia persone nominate ab Andrea Bonito filius quondam Iulii  ius exigendi in perpetuum grana 2 cum dimidio pro quolibet tumulo frumenti germani et grani de India in dicta Terra cum conditionibus expressis pro capitali ducatorum 1300.

Actum per notarium Iohannem Petrim de Staphano de Agerulo N. 1236.

1645, 6 febbraio, Agerola.

Gregorio de Avitabile (cognome che poi ha perso il “de”) fu Ottavio, Sindaco di dette Terra, Lorenzo Naclerio cassiere, Stefano Casanova, Natale de Campora (cognome che poi divenne d’Acampora e infine Acampora), Marco Cavalliere (cognome che oggi ha la forma Cavaliere) e Gregorio de Avitabile,  Eletti di dette Terra di Agerola, vendono a entrambi il dottore in legge Francisco Antonio de Afflitto fu Giovan Battista di Amalfi e ad Andrea Bonito fu Giulio che lo ha delegato,  il diritto di esigere per sempre 2 grani e mezzo per ogni tomolo di frumento germano e di grano d’India nella detta Terra,  con specificate condizioni, per un capitale di 1.300 ducati.

Atto del notaio  Giovan Pietro de Stefano di Agerola n.1236 .

Si tratta dunque dell’appalto di una gabella comunale (nel periodo spagnolo, a Napoli lo si chiamava arrendamento).  Quando una Universitas [3] si trovava in difficoltà e aveva bisogno di far cassa, cedeva a privati il diritto di riscuotere annualmente una certa tassa dovuta per legge dai cittadini, ottenendo in cambio il pagamento anticipato, una tantum, di una cospicua somma calcolata in base a una stima di quanto poteva rendere annualmente quella tassa.

Se un documento del genere lo si è trovato nell’archivio del monastero della SS. Trinità di Amalfi, vuol dire quasi certamente che, tempo dopo, quello ius exigendi  passò –per donazione o vendita – alle monache di quel cenobio. Ciò non deve affatto meravigliare, poiché nel Sei-settecento era abbastanza diffuso, anche tra gentildonne e certi istituti religiosi, comprare dei “fiscali” come forma d’investimento.

Ma passiamo ora a vedere degli altri motivi di interesse del documento in esame, cominciando dal fatto che ci fa conoscere il gruppo che governava Agerola in quell’anno. Come avveniva da secoli, il governo del paese era affidato a cinque eletti (uno per ciascuno dei  casali formanti Agerola) che duravano in carica un solo anno e che sceglievano poi uno di loro come Sindaco, carica che quella volta andò ad Avitabile Gregorio fu Ottavio.

Mentre lascio ai lettori agerolesi il gusto di rintracciare un proprio lontano antenato tra questi sei personaggi, voglio ricordare che il privilegio di  poter eleggere democraticamente i propri  amministratori, Agerola lo godeva già durante il medioevo antico, quando fece parte della cosiddetta Repubblica marinara (o Ducato) di Amalfi; privilegio cui dovette poi rinunciare a lungo tra il tardo Duecento e i primi del Seicento, epoca in cui anche il  glorioso Ducato di Amalfi dovette subire infeudazioni [4].

Ma torniamo ora al merito della delibera per svolgere alcune riflessioni. La prima è d’ordine linguistico e riguarda i termini frumento germano e grano d’India, che oggi gli Agerolesi usano ancora per indicare rispettivamente la segale e il mais, dialettalmente detti ‘o jurmano (aggettivo sostantivato) e ‘o Graurinnia  (saldatura di granu-de-Innia, dizione nella quale la prima “n” rimane muta, la “d” della preposizione è mutata in “r” (per il rotacismo tipico del napoletano) e la “d” di India è stata assimilata alla vicina “n”, che così si raddoppia.

A proposito della segale, dobbiamo anche ricordare che ad Agerola essa veniva coltivata, insieme all’orzo, al posto del frumento perchè più adatta al locale clima fresco; cosa particolarmente vera per quel periodo tra la metà del Cinquecento e la metà dell’Ottocento che fu particolarmente freddo a livello globale, tanto è vero che lo si chiama Piccola Età Glaciale.

L’antica delibera comunale in esame si presta poi a tentare una stima, sia pure approssimativa, di quanta segale e mais si produceva ad Agerola verso la metà del Seicento.

A tal fine possiamo partire dai 1.300 ducati pagati dagli appaltatori (il Bonito e il d’Afflitto) per vedersi cedere dal Comune il diritto a riscuotere e incassare loro l’imposta comunale di 2,5 grana per ogni tomolo di segala o mais. Dopo di che possiamo chiederci: quanto contavano di incassare ogni anno quegli appaltatori, visto che avevano accettato di pagare 1.300 ducati?

All’epoca venivano considerati  buoni investimenti quelli che rendevano tra il 5% e il 7/ all’anno. Ma se tale doveva essere il rendimento netto atteso, mentre quello lordo possiamo tentativamente stimarlo intorno al 10% annuo, così da coprire i “costi di produzione”, ovvero le paghe a chi operava i controlli e le riscossioni.

E’ difficile dire a quanto ammontassero detti costi annui, ma spero di non andare troppo lontano dal vero assumendo che valessero circa un altro 5% dei 1.300 ducati di capitale investito. Ciò equivale a dire che l’imposta presa in appalto doveva fruttare mediamente intorno a 130 ducati l’anno.

Visto che essa veniva pagata in ragione di 2 grana e mezzo per tomolo, considerato che 1 tomolo era poco meno di mezzo quintale e che 1 grana era la centesima parte di un ducato [5], possiamo dire che l’imposta era di 0,05 ducati  per quintale, ovvero di 1 ducato ogni 20  quintali.

Dunque, perché potessero riscuotersi 130 ducati la produzione annua di segale e mais doveva essere di 20 x 130 = 2.600 quintali.

Viste le incertezze incontrate nel calcolo, questo risultato va considerato semplicemente orientativo.

Sempre a scopo orientativo possiamo provare a stimare  anche l’estensione che avevano all’epoca i campi coltivati a segale e a mais ad Agerola. Oggi le coltivazioni di quei due cereali danno rese medie prossime a 30 quintali per ettaro, ma nel Seicento dovevano aggirarsi intorno a 10 quintali per ettaro [6]

Ne consegue che l’area totale che gli Agerolesi dedicavano annualmente alla coltivazione della segale e del mais può essere stimata in circa 260 ettari.

Potrebbe sembrare poco, visto che il territorio comunale si estende per circa 20 chilometri quadri (2.000 ettari), ma una gran parte di questa estensione totale corrisponde a ripidi pendii boscosi o rocciosi, mentre la porzione coltivabile, a media e basse pendenza [7], copre solo un quinto circa dell’area totale, vale a dire 400 ettari.

Tenuto conto che all’epoca del documento in esame la  popolazione di Agerola si aggirava intorno a 1650 individui, questo quantitativo corrisponde a una quota pro capite media di circa 160 kg/anno, ovvero circa 450 grammi al giorno a persona.

Di questi, una parte difficile da stimare, ma probabilmente rilevante, doveva andare ad alimentare gli animali da cortile che pressocché tutte le famiglie allevavano. Ma le persone avevano anche altre fonti di carboidrati; prima tra tutte quella rappresentata dai castagneti da frutto, che ancora ai tempi del Catasto Onciario (1752) coprivano vaste aree del territorio agerolese (si veda  l’articolo  Quando i castagneti da frutto dominavano il paesaggio agrario 

Note

1 L’opera fu curata da Catello Salvati e Renata Orefice per il Centro di Cultura e Storia Amalfitana, che la stampò nel 1986.

2 Proprietà  al cui riguardo i monasteri conservarono accuratamente, e spesso per secoli, tutte le “carte” pregresse che potevano dimostrare come erano loro pervenuti quei beni (testamenti, donazioni, vendite, scambi), spesso insieme a carte più antiche che tracciavano la storia pregressa di quei beni.

3 Antico modo di chiamare i Comuni; da universi cives, ossia “unione di tutti i cittadini”

4 Tra il Duecento e il Cinquecento i sovrani normanni, svevi, angioini e aragonesi concessero a vari feudatari  (tra cui i Sanseverino, i Colonna, i del Balzo Orsini e i Piccolomini) ora l’intero Ducato di Amalfi ed ora solo parti di esso. Per intero e più a lungo lo tennero in feudo i Piccolomini di Siena,  che lo ottennero da re Alfonso d’Aragona nel 1461, lo governarono tranquillamente per 121 anni e lo persero nel primo Seicento  dopo decennali tentativi di superare una loro crisi  finanziaria (si veda, su questo blog, il saggio Le tappe del feudalesimo ad Agerola e nel Ducato d’Amalfi)

5 Nel Regno di Napoli e poi nel Regno delle Due Sicilie 1         ducato  si divideva in 10 carlini; 1 carlino in 10 grana; 1 grana in 2 tornesi e 1 tornese in 6 cavalli.

6 Si veda il saggio “La rese (basse) dei cereali negli ultimi duemila anni.” Sul sito http://www.agricultura.it 

7 Considero anche quella  a media pendenza, qui intesa fino a 25 circa, tenendo conto dell’ampio uso che vi si fa, certamente da secoli, del terrazzamento ad uso  agricolo.



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La più antica poesia su Agerola

La poesia che ora pubblico in piena evidenza era già contenuta nel  mio articolo del 2014 “PENISE O FESTOLA? Il nome del fiumicello agerolese”,  ma essendo sfuggita a molti, ho deciso di riproporla.

L’AUTORE

La poesia è di Girolamo Fontanella, autore di cui mancano molti dati biografici, ma che  Carmine Jannaco indica come “il più puro poeta del secolo”.

Visse e morì a Napoli (1612 – 1644 circa). Fece parte della Accademia degli Oziosi e fu in rapporto con  figure  eminenti del mondo napoletano e non solo (ad esempio la celebre  pittrice Artemisia  Gentileschi). 

Per Benedetto Croce, il Fontanella, pur facendo parte dei poeti marinisti

(seguaci di Giambattista Marino che perseguivano novità, arguzia e meraviglia), si discosta dagli altri per una sua particolare “freschezza d’impressioni, virtù quasi perduta in quel tempo”. 

I componimenti di G. Fontanella sono per lo più compresi in  tre raccolte: Ode (Bologna 1633 e Napoli 1638), Nove cieli (Napoli 1640) e Elegie (pubblicata postumo a Napoli 1645). 

LA POESIA

La poesia dedicata al “fiumicello d’Agerola” si trova nella raccolta Ode, il cui titolo esatto è Ode del sig. Girolamo Fontanella, consacrate all’immortalità dell’ill.ma et eccell.ma signora D. Anna Carafa, principessa di Stigliano e Vicereina nel Regno di Napoli, della quale esiste una ristampa del 1994 curata da Rosario Contarino per le Edizioni RES, San Mauro Torinese. La poesia è dedicata all’agerolese monsignor Francesco Antonio Porpora, uomo di gran cultura e tra i primi studiosi della storia del ducato di Amalfi, nonché  Vescovo di Montemarano (vedi  il mio articolo “Agerolesi illustri del passato. Un cardinale “rubato” ed un vescovo dimenticato”).

Il Festola fiumicello d’Agerola

1 Viva perla de’ monti,

Cristallino ruscello,

Che diviso in più fonti,

Fuor del grembo d’un sasso esci giocondo;

E mentre fuggi e ne la fuga balli,

Fai rider gli antri e fai gioir le valli.

2 Tu purgato e lucente,

Vai scendendo per gradi;

E con onda ridente,

Sdrucciolando a l’in giù cadi e ricadi,

E bagnando per tutto erbe e viole,

Ti fai coppa a le piante e specchio al sole.

3 Cadi e cresci nel corso,

Lusinghier fuggitivo,

E d’intorno soccorso

Fai di più fonti e di più rivi un rivo;

E con fugace e tortuoso errore,

Dove stampi un’erbetta e dove un fiore.

4 Or con ombra felice,

Cheto cheto passeggi,

Or d’un’erta pendice,

Traboccando a l’in giù spumi et ondeggi;

E mentre d’acque un precipizio sciogli,

Fra i bollori che fai, fremi e gorgogli.

5  Qui girevole errante,

Par che posi e respiri;

Là fremendo sonante,

Un non so che di bel silenzio spiri,

E nel tuo corso allettator fugace,

Mostri col mormorio dir: “Pace, pace”.

6 Or doglioso ti sento,

Or giocondo ti miro;

Odo il placido vento,

Che teco piange e teco ride in giro,

Sì che dubbio non so, stupido in viso,

Se quel suono che fai, sia pianto o riso.

7 Quante volte del giorno

A goderti io discendo,

A vederti io ritorno,

E nel tuo corso il mio riposo prendo.

E parmi allor che quel tuo molle gelo

Cristallo sia del cristallino cielo.

8 Mille belli augelletti

Fan corteggio al tuo lido,

E con dolci versetti

Van cantando fra lor di nido in nido;

E nel danzar sono a veder sì belli,

Ch’angeletti li credo e sono augelli.

9 Chi librato in se stesso

Va per l’onde tue vive,

Chi danzandoti appresso

Le tue belle passeggia e fresche rive.

E tu che puoi sino allettar gli dei,

De la musica sua l’organo sei.

10 Quante belle corone

Ti fan l’erbe ove passi,

Poi che a par d’Anfione

Doni musica lingua ai muti sassi,

Tal che io non so s’ogni tua bella pietra,

Mentre mormora, sia viola o cetra.

11 Qui mi traggo soletto

Fuor d’angoscia e di pianto;

Qui pensoso e ristretto

Sento virtù che mi richiama al canto;

E l’onde tue ne l’assaggiar sì belle,

Sopra l’estasi mia m’alzo a le stelle.

12 Mentre fuggi m’insegni

Come fugga la vita,

Mentre corri mi segni

Come ogni cosa è in cominciar finita;

E mostri accorto al mormorio che fai,

Ch’incontro al mondo or mormorando vai.

13 O soave conforto

Del mio torbido ingegno;

O pacifico porto,

De le tempeste mie fidato pegno,

Vorrei che qui, senza cangiar mai tempre,

Mi desse il ciel di vagheggiarti sempre.

14 Pregi l’oro l’avaro,

Parto vil di Natura;

Ch’io più stimo et ho caro

Il molle argento di quest’onda pura;

E posso dir che per sì belle vie

Siano le selci tue le gemme mie.

14 Al tuo suono soave

Posa ogni arbor la fronte;

Dorme placido e grave

Il negro bosco e ‘l solitario monte.

E per mostrar ch’addormentato giaccia

Appresso l’onde tue stende le braccia.

15 Tu, qual Lete vitale,

Mi fai porre in oblio

Ogni torbido male

Che porge il mondo insidioso e rio;

E de’ miei sensi imperioso donno,

Col bel suono che fai, m’inviti al sonno.

16 Schivo d’auree vasella,

Saggia industria di fabbro,

Ne la linfa tua bella

La mano incurvo e ne fo coppa al labbro;

E l’alma poi, che un tanto ben contiene,

Fin su la bocca a ricrearsi viene.

17 Ma pur, lasso, ti lasso;

Ecco il canto sospendo:

“A Dio fiume, a Dio sasso;

Qui la sampogna a te sacrata appendo.

Da te mi parto, a la città m’invio.

A Dio selve, a Dio boschi, o colli a Dio”.

OSSERVAZIONI

Anfione (citata nella strofa 10) è un personaggio della mitologia greca. Figlio di Zeus e di Antiope, aveva  animo gentile e coltivava la poesia e la musica. 

Il Lete (citato nella strofa 15) appartiene anch’esso all’antica mitologia greca e romana ed è il fiume dell’oblio. Ma è anche un concreto fiume della Campania, tributario del Volturno della zona di Prata Sannita.  

Vasella, termine usato nella strofa 16, sta per vasellame, recipiente.

Infine  invito a notare come  il contenuto della strofa 7 e un po’ anche quelli della strofa 11, facciano pensare che il Fontanella ebbe non una, ma molte occasioni di passeggiare lungo le rive del Festola (antico nome del rio Penise); segno che ad Agerola egli passò almeno una lunga vacanza. Visto che la poesia è dedicata al monsignor Porpora, mi pare molto probabile che il poeta fu ad Agerola  proprio come ospite del Porpora. 

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La Punta Mezzogiorno, una cima con funzione di meridiana.

Nel mio articolo dedicato al toponimo Voltata longa, ho menzionato anche il vicino rilievo montuoso chiamato Punta Mezzogiorno (870 m s.l.m.).  Si tratta dell’ anticima nord-orientale del cosiddetto Colle Garofano (1.052m s.l.m.), alla periferia est del M. S. Angelo a Tre Pizzi (1.444 m s.l.m.) e vicino al confine tra i comuni di Pimonte e Agerola. 

La Punta Mezzogiorno appartiene alla categoria delle cime montuose il cui nome indica che in passato le popolazioni locali le hanno utilizzate come delle meridiane naturali [1]. Tale categoria di oronimi è attestata in molti Paesi e diverse lingue. In Italia essa conta diverse decine di casi, molti dei quali che si riferiscono alle ore 12; per esempio il Pizzo Mezzodì presso Bronte (CT), il Monte Mezzogiorno presso Stellanello (SV) e tanti altri.

Se abbondano soprattutto e di gran lunga, gli oronimi-orari che si riferiscono al mezzogiorno, è per via del fatto che la direzione (azimut)  nella quale vediamo il sole in altre ore della giornata varia sensibilmente col passare dei giorni e il susseguirsi delle stagioni [2], mentre a mezzogiorno esatto esso si pone sempre nella direzione Sud (più alto in estate e più basso in inverno, ma sempre a Sud) [3].

Dunque la nostra Punta Mezzogiorno fu chiamata così perché, in ogni giorno dell’anno, quando si vedeva il sole passare sulla verticale di quella cima si poteva dire che era mezzogiorno.

Ma chi, e stando dove, poteva correttamente svolgere quell’osservazione? La risposta è che bisognava stare sullo stesso meridiano di Punta Mezzogiorno e a nord di quest’ultima. Orbene, consultando una buona carta topografica è facile verificare che sul meridiano di Punta Mezzogiorno non si pongono né il nucleo storico della vicina Pimonte, né alcun altro centro abitato con visuale sulla Punta Mezzogiorno. Risulta invece in posizione ideale l’estremità sud-orientale della cresta del Monte Pendolo (550 m s.l.m.) , dove  in epoca sveva  (XIII secolo)  sorse castrum di Pimonte [4].

 Furono dunque i miles di quel castello a dare il nome che ancora mantiene alla Punta Mezzogiorno? E’ possibile. Ma a me pare più probabile che a farlo furono i monaci del monastero agostiniano che, due o tre secoli più tardi, fu costruito sul sito di quel castello. 

Degli odierni ruderi di questo singolare connubio tra militaresco e monastico (assolutamente da restaurare e valorizzare!) fa parte anche un campanile che i monaci realizzarono modificando una delle torri dell’antico castello. Ciò mi lascia immaginare che fu un monaco addetto alle campane di quel cenobio a notare per primo  l’esatto allineamento meridiano con quella vicina cima montuosa (su sua proposta, venne denominata Punta Mezzogiorno) e a utilizzare il quotidiano passaggio del sole sulla verticale di quella cima per sapere quando dare ai valligiani i rintocchi del mezzodì.

Note

1 –Le meridiane che vediamo sulle facciate sud di molti antichi palazzi e di alcune  chiese segnano virtualmente tutte le ore del giorno, ma il loro nome deriva dal latino merídies (‘mezzogiorno’). In geografia e cartografia si chiamano meridiani i semicerchi che, sulla Terra, vanno a polo a polo (tecnicamente linee d’intersezione tra la “sfera” terrestre e dei semipiani passanti per l’asse di rotazione del pianeta) . 

2 – Ad esempio, da noi, verso il solstizio di giugno il sole delle ore 9 di mattina si trova vicino all’Est, mentre alla stessa ora del solstizio di dicembre il sole si trova all’incirca in direzione sud-Est. A chi volesse approfondire quest’aspetto consiglio di vedere i grafici con le rotte del sole nel cielo presenti sul sito https://www.sunearthtools.com › tools › pos_sun

3 -Ciò vale per tutta quella parte dell’emisfero Nord della Terra che -in quanto a latitudine –  si trova sopra il Tropico del Cancro. Per l’equivalente fascia extratropicale dell’altro emisfero terrestre, il sole di mezzogiorno indica invece il Nord. Infine, nella fascia inter-tropicale (tra 23° N e 23°S di latitudine) il sole di mezzogiorno indica per un semestre il Nord e per l’altro il Sud.

4 –Il castello di Pimonte fu aggiunto a quelli che gli Amalfitani avevano secoli prima costruito a Lettere, Gragnano e Pino per controllare la valle del Rio di Gragnano, la più agevole via di accesso da nord al Ducato di Amalfi. Sull’argomento si veda il bel saggio di D. Camardo e M. Esposito Le frontiere di Amalfi: I castelli stabiani dal ducato indipendente alla dominazione angioina. Eidos 1995.

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Il toponimo Voltata longa alla luce di un caso di raffronto da Perugia.

Il toponimo cui dedico la presente nota si trova lungo la scarpata orografica che scende dal crinale principale dei Monti Lattari (porzione subito a est del M. S. Angelo a Tre Pizzi) verso l’abitato di Pimonte.

Siccome lungo quella scarpata passa anche la strada (ex Statale) 366 “di Agerola”, si è facilmente indotti a pensare che quel Voltata Longa si riferisca a una curva di quella rotabile.

In realtà l’interpretazione corretta del toponimo è un’altra e ha a che fare – come vedremo – con una viabilità molto più antica.


L’area tra Agerola e Pimonte citata nel testo come appare sulla carta topografica 1:25000 dell’I.G.M., tavoletta Positano. Il toponimo Voltata longa è evidenziato in rosso, mentre in giallo sono evidenziate le località Crocella e P.ta Mezzogiorno.

A illuminarmi in proposito, confermandomi un’ipotesi che avevo in mente da anni, è stato ciò che ho osservato e compreso durante una mia recente visita alla bella Perugia. Mia moglie Lucia ed io eravamo entrati nel circuito murario settecentesco per Porta San Pietro, e avevamo proseguito dritto sul pianeggiante Corso Cavour (già Via Papale) diretti verso l’altura sulla quale si sviluppa il nucleo più antico della città. Stavamo per imboccare le Scalette di S. Ercolano, uno degli accessi antichi alla città alta, quando sento Lucia declamare: “Via Prospero Podiani, già Voltata delle carrozze”. Al mio “Cosa?” lei mi indica una traversa sulla sinistra e aggiunge: “E’ quel che recita la targa di questa strada; si vede che anticamente era lo spazio dove le carrozze potevano girare, tornare indietro.”

Lì per lì quella lectio facilior convinse anche me, ma dopo qualche secondo di riflessione sul contesto topografico e viario, le dissi che ritenevo molto più probabile che il nome antico della strada in questione nacque dal fatto che essa costituiva la variante, la deviazione (voltata in quel senso [1] ) che le carrozze dovevano prendere, in alternativa alle Scalette, per salire sull’acropoli perugina. Poi ho potuto verificare che questa è anche l’interpretazione che forniscono G. Chiuini, F. Mancini e S. Stopponi a pagina 68 del loro libro Perugia, edito da Electa nel 1993.

A mio avviso, una spiegazione analoga può proporsi, mutatis mutandis, per la locuzione toponomastica Voltata longa dei Monti Lattari. Ciò che distingue i due casi è che il primo è relazionato a strade urbane, mentre il secondo a vie di montagna (per l’esattezza mulattiere). In comune, invece, vi è che in entrambi i casi il termine “voltata” sta per  ‘variante, percorso alternativo’  e, inoltre, detta variante è più dolce, meno acclive del percorso viario da cui si distacca; cosa, questa seconda, che nel caso perugino è espressa con l’epiteto “delle carrozze” (leggi ‘adatta alle carrozze in quanto a bassa pendenza’), mentre nel caso campano è indicata dall’aggettivo “longa”, cioè ‘che mena allo stesso luogo cui giunge l’alta mulattiera, ma con un percorso più lungo e, quindi, meno pendente’.

Il luogo elevato cui giungere era la sella della Crocella, punto di valico per gli spostamenti tra Stabia (poi Castellammare di S.) a nord e Agerola e altri luoghi del Ducato d’Amalfi a sud [2]. Il tratto del citato percorso che andava da Pimonte (circa 400 m s.l.m.) al passo della Crocella (1.002 m s.l.m.) si componeva di una porzione iniziale a pendenze basse e medie, camminando su dei ripiani di conoide alluvionale inclinati tra il 15 e il 25%. Poi, da quota 600 m in su, la mulattiera diventava molto ripida, inerpicandosi lungo il  fianco orientale del vallone del Resino (da Rio Secco).

La lunga e fitta sequenza di gradoni che caratterizzava quella salita, la rendeva poco adatta alle persone  che trasportavano carichi  pesanti e ai muli  con some pesanti  o particolarmente  ingombranti per cui fu realizzata anche una variante che, partendo da quota seicento circa, saliva al passo della Crocella con un percorso più lungo – e dunque a minor pendenza media- che girava intorno al vicino colle di Punta Mezzogiorno [3].

Ciò detto sull’origine del toponimo Voltata longa, chiudo ricordando ai lettori che, purtroppo, delle due citate mulattiere storiche dal Resicco di Pimonte al passo della Crocella (la “diretta” e la “variante lunga”) oggi non restano che poche e incerte tracce sul terreno, essendo venuta meno la loro manutenzione a partire dalla costruzione della rotabile Gragnano – Agerola (anno 1880). Eppure a farne auspicare il ripristino sono, a fianco all’utilità in silvicoltura e per la manutenzione ambientale, le potenzialità a fini turistici di un percorso di trekking che, passando per Agerola, Pimonte e Tralia, consentisse lo spostamento a piedi, tra due grandi attrattori: la Costa d’Amalfi e l’area archeologica di Stabia, ora arricchita dal nuovo, bel museo Libero d’Orsi nella casina reale di Quisisana. 

Note

1 – Come può leggersi sul dizionario Treccani, il termine voltata non indica solo l’azione, il fatto di voltare, bensì anche – come nel nostro caso – il punto, il tratto in cui da una strada si volta in un’altra.

2 – Il valico di Crocella conveniva soprattutto a chi era diretto a (o proveniva da) Positano, Vettica Maggiore, Praiano e Furore – Casanova. Altro valico maggiore era quello di S. Angelo a Jugo (oggi Colle S. Angelo (a 945 m s.l.m., due chilometri circa a est di Crocella), funzionale ai collegamenti tra Gragnano e Amalfi via Pino e Agerola.

La “Via della Crocella” è descritta anche nella nota guida turistica  di John Murray, A handbook for travellers in Southern Italy (Londra 1863 e successive riedizioni) come uno dei modi per raggiungere Amalfi via terra dopo aver visitato Napoli , Pompei e Sorrento. E’ interessante notare che nella prima edizione l’autore dice che quella mulattiera era stata da poco migliorata (“improved”); chissà che non furono proprio quei lavori a creare la variante della Voltata longa!

3 –Sull’origine di questo singolare, ma non rarissimo oronimo pubblicherò presto un articolo  su questo blog.

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Campo della scola, un interessante toponimo medievale di Agerola.

  • Introduzione

Campo della scola è oggi il nome di una strada secondaria della frazione San Lazzaro, nome che in passato costituiva il toponimo indicante la zona che quella stradina attraversa.


Stralcio della mappa catastale del Comune di Agerola di inizio Novecento.
Evidenziata in rosso è Via Campo della Scola. Si noti come Via Campo della Scola proseguisse, con quel nome, anche sulla collinetta dove sorgeva il palazzo del Generale Avitabile (poi rimpiazzato dalla Colonia Montana), sicché il Generale, per estendere verso ovest il parco del palazzo, la scavò con un piccolo tunnel artificiale, ancora oggi percorribile. 

Si tratta di un’area a debole pendenza e a tratti  pianeggiante sul quale discendono, da una parte, il  versante sud del Monte Murillo e, dall’altra, il fianco nord della ben più modesta altura della Colonia Montana [1] 

2 . Cenni etimologici su Scola e Campo.

Scola è uno dei migliori esempi che si possono portare per dire che molti vocaboli del nostro “dialetto” si avvicinano alle voci  latine o greche da cui derivano, più di quanto non facciano gli equivalenti termini della lingua italiana. Infatti l’italiano scuòla viene dal latino schŏla per sostituzione del dittongo UO alla vocale semplice O; come accade anche nei passaggi da bonus a buono, da homo a uomo, da sonus a suono e altri ancora. 

Il latino schŏla derivò da σχολή (scholḗ), il termine che i nostri cugini greci usavano per indicare sia il tempo  libero, sia quel ‘dedicarsi  al proprio arricchimento culturale e spirituale’ (l’otium dei Latini) che  il tempo libero consentiva. Fu poi nella antica Roma che schola  prese a significare, oltre che ‘lezione, conferenza, discussione’, anche ‘luogo dove si  insegna’.

Riguardo al sostantivo campo, che deriva dal latino  campus (campagna piana) tra le tante accezioni e usi che elenca il Vocabolario Treccani on line, quello che meglio corrisponde al caso in esame sembra il primo (1.a)  quello di “Spazio limitato di terreno destinato alla coltivazione di cereali, leguminose, ecc.”. D’altra parte, nella toponomastica dell’Appennino meridionale il sostantivo Campo ricorre abbastanza spesso per indicare radure più o meno pianeggianti (spesso destinate al pascolo) il cui perimetro è ben definito dai circostanti pendii rocciosi o boscosi (Campo Catino nel Lazio, Campo Imperatore in Abbruzzo, Campolattaro nel Molise, Campolaspierto sui campani Monti Picentini). 

Un aspetto della zona Campo della scola oggi. 

3.  Come e quando nacque il toponimo

Un documento dell’ottobre 1208 il cui testo è riportato integralmente nella Istoria  di Francesco Pansa [2] consente di capire come nacque il toponimo in esame e quale era la scuola cui esso allude.

Si tratta dell’atto di fondazione  della pubblica “schola liberalium artium” presso l’episcopio di Amalfi, rivolta ai giovani sia chierici che laici e creata a sue spese dall’illustre cardinale Pietro Capuano, amalfitano di fama europea per la sua grande cultura teologica e per le azioni diplomatiche da lui svolte per la Santa Sede. [3] 

Per garantire il sostentamento della scuola e la gratuità delle lezioni  da essa offerte, il Capuano la dotò con diverse proprietà immobili, tre delle quali ubicate ad Agerola: 

a) un tenimento con “vinea, castaneto, et sylva ad Palnillum cum omnibus suis pertinentiis” che il Capuano aveva comprato da Purpura Capuana; 

b) un altro castagneto di Pianillo che il Capuano aveva comprato da Leone Fontana Rosa; 

c) una proprietà con “vinea et terra, et rosario (ossia roseto; da collegarsi alla produzione della apprezzatissima Acqua di rose agerolese)  collocata  a Capite Pendulo, che il cardinale aveva comprato da Pandolfo Veramettti di Scala.

A mio avviso, questa terza proprietà corrisponde quasi certamente con quella che gli Agerolesi presero poi a chiamare “Lo campo della scola”, anche perché Capitre Pendulo (o Caput de Pendulo) è l’antico nome di del casale di San Lazzaro, così ribattezzato nel Trecento, quando vi fu eretta una chiesa dedicata a quel santo.


Il Monter Murillo e, alla sua base, il fondo sub-pianeggiante del luogo Campo della Scola, dove nel 1962 venne creato un campo di calcio. Foto di quell’anno scattata dall’altura della Colonia Montana (dal libro di Michele Naclerio “Agerola, iconografia, documenti e bibliografia” Tecnografica di Sandrigo (Vicenza 2013).

Il toponimo Campo della scola  compare anche nel Catasto Onciario di Agerola, redatto nel 1752. Da esso apprendiamo che a metà del Settecento la proprietà del luogo” Campo della scola era passata – chissà da quando e perché – a un altro ente ecclesiastico di Amalfi:  il “Monastero delle Monache Nobili sotto il titolo della Santissima Trinità [4] ed era descritto come un “terreno da zappa con castagneto e selva congiunt … confinante con beni di Pietro Lauritano da più parti e degli eredi di Biase Coccia” [5].

Purtroppo quel Catasto non include mappe, né fornisce misure di estensione delle proprietà che esso elenca, ma che il fondo in questione fosse parecchio esteso, prendendo quasi per intero la valletta a fondo piatto descritta in premessa, emerge ugualmente dal fatto che la rendita annua che esso fu valutato ben 510 ducati, valore che solo un’altra proprietà agerolese superava: la vasta area boschiva che possedeva, sul monte de L’Acquara (oggi Colle Sughero), la napoletana donna Livia de Turris , valutata 600 ducati. 

Note 

1- Dal punto di vista geomorfologico, l’area in questione rappresenta una paleo-valle secca che defluiva da sud-est verso nord-ovest (ovvero verso il centro della conca di Agerola) e che perse buona parte del suo bacino alimentatore intorno a due milioni di anni fa, quando si ebbe lo sprofondamento tettonico che creò il Golfo di Salerno

2 – F. Pansa, Istoria dell’antica Repubblica d’Amalfi, Napoli 1724 (rist. anast. Bologna 1965).vol. I, pp. 11 – 117. 

3 – Su  questo importante personaggio del nostro Medioevo, che fu anche amico di Federicco II di Svevia,  invito a leggere la dettagliata biografia disponibile sulla Enciclopedia Treccani  http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-capuano_%28Dizionario-Biografico%29/

4 – Fondato nel 1579), il monastero della SS. Trinità accorpò in se i precedenti monasteri femminili di Amalfi, per poi venir anch’esso soppresso nel 1891. Oggi l’edificio ospita il Municipio, la Biblioteca Comunale e altro ancora. Ne fa parte anche la seicentesca chiesa di San Benedetto

5 – Ricordo che le più antiche case dei Coccia a San Lazzaro si trovano proprio al margine  nord-occidentale della Via (e zona) Campo della Scola, che a meridione è bordata invece dal rialzo su cui sorge il palazzo dei Lauritano al Tuoro .

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Il territorio dello Stato di Amalfi tra X e XII secolo

L’immagine qua sopra mostra la Carta del Ducato di Amalfi (cosiddetta Repubblica Marinara) che fu prodotta, sotto la mia supervisione, dal Centro di  Cultura e Storia Amalfitana alcuni anni fa, quando si allestiva negli Antichi Arsenali il Museo della Navigazione.  Alla redazione della Carta collaborarono anche gli esperti Domenico Camardo e Giuseppe Gargano, nonché la disegnatrice Mary Cinque e il grafico Simone Avella.

Stampata  nelle dimensioni di 2 x 3 metri circa, essa fu posta in fondo alla navata sinistra degli arsenali, aiutando per anni e anni i visitatori a meglio comprendere l’estensione che ebbe il Ducato indipendente di Amalfi (anni 839 -1131), quali Città, Terre e Casali ne facevano parte e dove sorgevano i vari castelli e castra (borghi fortificati) che ne assicuravano la difesa.

Ora la pubblico su questo blog al fine di favorire una ancor più ampia diffusione di simili conoscenze storico-geografiche, augurandomi in particolare che la utilizzino i docenti e gli studenti delle nostre scuole.

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Una fonte di fine Ottocento per la storia del turismo ad Agerola.

Mentre chiedo scusa ai lettori per aver  diradato le mie pubblicazioni su questo blog, con questa breve nota voglio segnalare loro un testo che mi è capitato di scoprire solo ieri .

 Si tratta di un articolo di una ventina di pagine intitolato “I Monti Lattari. M. S. Angelo a Tre Pizzi, 1444m”, pubblicato dal prof. Vincenzo Campanile sul numero del 1892 dell’Annuario della sezione di Roma del Club Alpino Italiano (CAI).

Grazie a Google Libri, lo potete leggre  per intero clikkando questo link

Annuario della Sezione di Roma del Club alpino italiano – Google Libri

Io intanto vi mostro una delle foto che sono incluse nell’articolo e il brano iniziale  della lunga parte che il Campamile dedica ad Agerola.

 P.S.

Faccio presente che l’autore chiama S. Angelo a Guida  quello che le carte topografiche pi

 moderne chiamano Colle S. Angelo, valico lungo la giogaia dei Lattari che anticamente era  detto di  S. Angelo a Jugo o Giugo (da cui, per errore,  Guida) .

A proposito di nomi, noterete anche che ciò che oggi chiamiamo Castello Lauritano era più correttamente detto Casina Lairitano, dove “casina” sta per ‘residenza signorile di campagna’.

A proposito dei Lauritano, l’autore dell’articolo alloggiò nell’albergo che quellla famiglia . nella persona di don Angelo –  aveva creato a San Lazzaro una quindicina di anni prima, mentre la rotabile per Gragnano non era ancora stata completata, sapendo prevedere che quel nuovo collegamento avrebbe portato ad Agerola molti napoletani, e non solo.

Buona lettura e mille auguri a tutti per un 2023 di fruttuoso impegno per un mondo migliore.

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Sull’insolito modo di dire “un tale” nel dialetto agerolese.

Nel dialetto che si parla ad Agerola (micro variante del napoletano)  sopravvive  un sostantivo maschile gent(o) (pronunciato con vocale finale indistinta) che presenta significato diverso da quello del sostantivo femminile gent(e) . Quest’ultimo, è un nome collettivo che,  al di là della divrsa pronuncia, è identico all’italiano gente e  sta per  ‘insieme, gruppo, numero indeterminato di persone’ [1].

 Invece, gento al maschile (‘o gent; nu gento, chillu gento)  viene usato ad Agerola per indicare un  individuo, un tale, una persona maschile. Come esempio d’uso, riporto la seguente frase: “Papà, papà, là fore ce sta nu gente ca te vò!” (Papà, papà, llà fuori  c’è un uomo che vuole vederti!”).

Volendo interrogarsi sull’origine del termine, conviene innanzitutto ricordare che l’italiano gente eredita il suo valore di collettivo dall’equivalente latino  nte (da  gignĕre ‘generare’), tant’è vero che, presso i romani,una gens era l’insieme dei membri  di tutte le famiglie appartenenti a una certa stirpe o progenie  (ad es: la gens Claudia, la gens Flavia, ecc.).

Problematica appare invece l’etimologia del dialettale sostantivo maschilegento.  Ciò che mi pare più probabile è che si ricolleghi anch’esso a  gignĕre, in particolare al medievale   genĭtus (aggettivo da participio passato  della forma passiva di gignĕre) che, mentre si contraeva per sincope [3]   in *gento,  vedeva il suo senso passare da ‘generato’ovvero ‘nato’, a ‘individuo, uomo’.

Ma mi sembra interessante notare che il termine gento viene preferito ai quasi equivalenti  omme, signore e cristiano [2] quando la persona da indicare è uno sconosciuto e, come spesso mi è parso di cogliere, quando si vuol suggerire all’ascoltatore di trattarla con prudente diffidenza..

Ciò mi suggerisce l’ipotesi che  nella genesi di questo gento e del suo significato, abbia influito il latino gentes (plurale del già visto gens), che nel periodo romano imperiale  prese a significare barbari, stranieri’ (in contrapposizione a Romani e Greci) e, poco dopo, anche ‘pagani, miscredenti’ in contrapposizione ai cristiani [4].

NOTE

 1 –Insieme che è di norma individuato per una comune caratteristica, attività o provenienza (es:  gente per bene,  povera gente;  gente di  teatro, gente di fuori) . Si veda al proposito la voce “gente”  del dizionario online www.garzantilinguistica.it

2 – A proposito del sostantivo cristiano e del suo uso come equivalente di ‘persona,  tizio, uomo’, con sottinteso pregiudizio positivo, si consideri anche ciò che segnalo nelle ultime righe dell’articolo.

3 – La sincope è quel fenomeno che, nella evoluzione secolare di una parola, porta ad eliminare  uno o più fonemi. Tipico esempio è quello del latino calidus che diventa “caldo”

4 –Al proposito si vedano le  voci “gentile²” e “gente2” del Vocabolario Treccani e si consideri, inoltre, che San Paolo fu detto l’Apostolo delle genti in quanto il suo apostolato si rivolse soprattutto verso i cosiddetti gentili, intendendo con tale termine i popoli non giudaici, i pagani.

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La  “transumanza” delle patate. The”transhumance” of potatoes.

(Scroll down for English version).

E’ noto che nella pastorizia esistono due tipologie di transumanza: quella che vede pastori e  greggi compiere lunghi spostamenti da una regione climatica ad un’altra (ad esempio dall’Appennino abruzzese al tavoliere pugliese lungo il tratturo l’Aquila – Candela) e quella che prevede invece spostamenti meno lunghi, ma più ripidi, in quanto insegue le fasi di boom vegetativo delle erbacee spostandosi soprattutto in altitudine (in pianura d’inverno e su di una vicina montagna d’estate). E’ a questa transumanza verticale, nota anche come monticazione o alpeggio, che allude lo scherzoso e metaforico  titolo di questo mio articolo, il cui contenuto è però assolutamente serio e vuole ricordare una antica pratica colturale della nostra zona. 

Essa mi fu raccontata anni fa da un anziano coltivatore diretto di Agerola  e mi fu poi confermata da diverse altre persone che ricordavano i tempi in cui  

l’agricoltura costituiva ancora la principale, se non unica, fonte di reddito di molte famiglie del paese e la coltivazione della patata era tra le più redditizie [1].  

Nonostante che, all’epoca, ci si spostava per lo più a piedi, i contatti tra gli Agerolesi e gli abitanti dei limitrofi centri rivieraschi (Amalfi, Conca, Furore, Praiano e Positano) erano più frequenti di oggi [2]. Ne conseguivano scambi di esperienze e riflessioni che permisero ben presto ai nostri contadini di notare come la resa di quel tubero (chili di patate nuove ottenute per ogni chilo di patate vecchie seminate) aumentava sensibilmente se non si seminava ogni anno nello stesso luogo. Ma non nel senso di stesso campo (come ben insegnano le pratiche della  rotazione e del sovescio), ma nel senso di stesso paese, stesso tipo di suolo e clima.  

Ne conseguiva l’uso di scambiare le patate da semina tra Agerola e uno dei sopracitati paesi a bassa quota della Costa d’Amalfi. Il più delle volte ciò avveniva a baratto: in primavera, il coltivatore agerolese dava al coltivatore di Furore o Praiano eccetera, come patate da seminare, quelle da lui coltivate in montagna l’anno precedente. In cambio, il partner di Furore, o Praiano eccetera dava all’Agerolese delle patate coltivate l’anno prima a bassa quota.   

Con questa specie di  transumanza, non stagionale ma generazionale,  le patate della Costa d’Amalfi alternavano una annata a bassa quota e una annata a quota d’alta collina o montagna, così da dare sempre la massima resa. 

Note 

1 –  Nel corso del tardo  Settecento e dell’Ottocento la coltivazione della patata, insieme a quella del mais, era diventata la nostra  principale fonte di carboidrati, scalzando in ciò le castagne  e inducendo una progressiva sostituzione dei castagneti in campi coltivati. Oltre ad essere vendute fuori paese, le patate erano anche  molto presenti nella dieta degli agerolesi, che infatti si guadagnarono il soprannome di patanari  (‘mangiapatate’). 

 2 –Mi riferisco soprattutto al periodo anteriore alla costruzione delle rotabili (quella per Gragnano completata nel 1885 e quella per Amalfi nel 1936).  

English version

This article is dedicated to Carol LeWitt of the Yale University (New  Haven, CT, U.S.A.) and to the dieticians who are currently studying our

traditional diet and produces

It is well known that Mediterranean pastoralism admits 

two types of transhumance ( a ) the one that sees shepherds and livestocks make long journeys from one climatic subregion to another (e.g. from Abruzzo to the Tavoliere following the millenary Aquila – Candela tratturo) and ( b ) the one 

that involves shorter, but steeper transfers (from a lowland to a nearby highland and vice versa) to find green pastures both in winter and in summer. The title of te present article alludes to the latter type of transfer, which is called vertical transumance or monticazione and alpeggio in Italian.  It is a playful, metaphorical allusion, but the article content is absolutely serious and is intended to report an ancient cultivation practice.

It was told to me years ago by an elderly farmer from Agerola and it was then confirmed to me by several other people who remembered the days when agriculture was still the main (if not the only) source of income for many families and potato was one of the most profitable crops [1].

Although at the time people moved mostly on foot or by mule [2], for kinship and for social and commercial reasons, contacts between the inhabitants of Agerola and those of the neighboring coastal towns (Amalfi, Conca, Furore, Praiano and Positano) were more frequent than today. The implied exchange of experiences and ideas that allowed the local peasants to discover that the yield of potato (kilos of new produce obtained from every kilo of old potatoes sown) increased significantly if not sown every year in the same place. But not in the sense of the same field (as the practices of rotation and green manure teach), but in the sense of the same zone, same soil type and microclimate.

This resulted in the custom of exchanging potatoes for sowing between Agerola and one of the aforementioned other towns of the Amalfi Coast. In most cases this exchange took place by barter: every year, in spring, the farmers of Agerola supplied potatoes to be sown to the farmers of  Furore or Praiano etc., taking them from the potatoes grown in the mountains the previous year. In exchange, those farmers of Furore, or Praiano, etc. supplied their companions 

in Agerola with potatoes to sown taken from those they had cultivated at low altitude the year before.

With this practice, they say, the potatoes of the Amalfi Coast alternated a generation (i.e. harvest) at low altitude (few tens to 400 – 500 m a.s.l.) and a generation at higher elevation (600 to900 m a.s.l.), so as to always give maximum yield. 

Note

1 – During the late eighteenth and nineteenth centuries, the cultivation of potatoes, together with that of corn, had become our main source of carbohydrates, thereby undermining the local production of chestnuts (active since the 10th – 11th century) and causing the progressive replacement of chestnut groves with cultivated fields. In addition to being sold outside the country, potatoes were also very present in the diet of the Agerolans, who in fact were nicknamed patanari (i.e. potato eaters).

2 –This was particularly true before the construction of the roads connecting Agerola with Gragnano (1885) and to Amalfi (1936).

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